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La Parola e il Gioco

Pratica Multisistemica integrata ad Orientamento Evolutivo per il trattamento dei Disturbi Neurocognitivo-Linguistici, Motorio-Prassici e dello Spettro Autistico

 

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L’etica nell’infanzia

Maria Mutata Margherita

 

Questo lavoro ha a monte due domande:

Si può parlare di una dimensione etica nell’infanzia?

Perché mi interessa ricercare una dimensione etica nell’infanzia?

 

In fondo l’etica ha a che fare con un’assunzione di responsabilità che non può e non deve essere riferita al bambino.
E allora, qual è la dimensione etica di un neonato, oppure di un bimbetto di tre anni o di un bimbo al suo primo anno di scuola elementare?
Questa domanda, per il solo fatto di essere formulabile, rinnova il senso di un’altra domanda ovvero, che cos’è l’etica nell’età adulta?

Ecco il punto nodale: c’è una dimensione di giustezza dell’azione di un bambino che è in rapporto con una dimensione di giustezza dell’azione nell’adulto. La pratica di B. Aucouturier è uno dei più riusciti esempi di questo rapporto.

Con l’aiuto di un’immagine potremmo forse dire che l’etica nell’infanzia occupa il posto di un’interfaccia che collega il bambino agli adulti che si occupano di lui e che dovrà essere oggetto di particolare riguardo.

L’immagine dell’interfaccia ci mostra che tra noi e l’infanzia, tra noi e il luogo dell’origine, c’è collegamento ma non continuità. Quando siamo davanti ad un bambino, siamo anche di fronte alla nostra responsabilità di adulti.

Una posizione etica dell’adulto è, con una certa immediatezza, l’unica cosa che serve, perchè ci sia evoluzione e uscita dal malessere nel bambino, ovvero perché si manifesti quel movimento che colloca il bambino nel divenire del gioco e che permette che il gioco stesso abbia una certa durata.

Emerge, a questo punto, una domanda: Che cos’è il disagio e che cos’è il malessere nell’infanzia?

Per aprire la questione riporterò un brano che ho tratto dal commento di Ettore Perrella ad un sonetto di Rainer Maria Rilke. (Le Ipotesi del soggetto e la scienza, N° 1 p. 164):

“L’infanzia tuttavia, non è affatto un’epoca felice, perché è un’epoca d’estraniazione. Anche la gioia, allora,… “non apparteneva a nessuno”, e questo perché l’infanzia consiste proprio in un’individuazione ancora aperta.

Ma le cose del mondo non sono affatto altrettanto aperte, e questo provoca quella sottile angoscia che Rilke, con penetrazione, attribuisce a questa età.

Il mondo degli adulti scivola con indifferenza accanto al gioco dei bambini, i quali non riescono ad appropriarsi della propria gioia, che non si vedono riconosciuta, e ch’è condannata perciò a svanire nel nulla, rendendo l’anno un’attesa noiosa di un riconoscimento che, forse, non verrà”.

Se ha senso parlare di etica nell’infanzia è proprio perché esiste una sofferenza del bambino e una possibile uscita dalla dimensione della sofferenza.

Il bambino sceglie e si impegna nella sua scelta di benessere; sceglie di giocare e nel gioco si impegna, ed il gioco coincide con la dimensione etica.

Non c’è niente di automatico nel prodursi del gioco, possiamo vederlo proprio nei bambini che soffrono laddove il gioco mostra i segni della patologia.

Il ritorno ad una dimensione ludica, che sia durevole, leggera, gioiosa e seria allo stesso tempo comporta un movimento del bambino ben visibile in terapia, come pure sono visibili i tentennamenti e le difficoltà che lo accompagnano.

Ma il concetto di scelta nell’infanzia non è immediatamente sovrapponibile a quello di scelta nell’età adulta.

Nel primo caso il movimento del bambino consiste nel lasciare a lato la sofferenza, nel secondo caso, perché si produca un movimento etico, occorre che la sofferenza sia assunta, come passo necessario che ci conduca ad essere responsabili per noi stessi e per gli altri.

Stiamo parlando di un possibile differente statuto della sofferenza nell’infanzia e nell’età adulta.

A cosa ci riferiamo, quando parliamo delle dimensioni della sofferenza, della gioia e del desiderio nell’adulto?

Tra le altre cose, ci riferiamo a ciò che ci muove, alla sensazione di parzialità che ci spinge verso l’idea della pienezza, ma anche all’ansia e al panico che ci colgono quando la certezza della nostra finitudine, rischia di frantumare la trama di senso dell’esistenza.

Noi vediamo la gioia e la sofferenza nell’infanzia solo con i nostri occhi, oppure, non le vediamo affatto.

In entrambi i casi non vediamo il bambino, la sua propria modalità esistenziale e schiacciamo l’infanzia nell’idea di una continuità con noi a partire dalla quale resta un mito.

È questa l’idea che del bambino ci rimanda la psicanalisi.

Per la psicanalisi il desiderio e il disagio vengono da una stessa ineliminabile divisione originaria.

Il linguaggio che mette l’uomo nelle condizioni di raggiungere le vette più alte della consapevolezza e del pensiero, lascia dietro di sé un residuo di ciò che non potrà mai essere rappresentato nelle parole e in questo residuo noi immaginiamo esserci il cuore di noi stessi, quel qualcosa che rincorriamo tutta la vita senza mai raggiungerlo.

In questa concezione, il movimento nasce da uno scarto da una non coincidenza, da un taglio.

La pulsione, è il concetto con cui la psicanalisi cerca di nominare la spinta che, a partire da tutto questo, ci anima.

Come Perrella ci segnala nel mito di Crono, il concetto di pulsione mostrerà delle differenze a seconda che lo si consideri dal punto di vista più strettamente freudiano, o lacaniano.

In Freud possiamo intendere questo taglio originario come segnato dall’impossibilità del corpo di coincidere con sé stesso, pensiamo, ad esempio, alla sensazione di una nostra mano che tocca l’altra, laddove seppure noi sentiamo le due parti del corpo come nostre, sentiamo anche il toccare e l’essere toccati.

Per Lacan il taglio è quello che inaugura la differenza tra ciò che è dell’ordine naturale e ciò che è dell’ordine simbolico: l’uomo in quanto essere parlante nasce alla vita e alla parola portando in seno la morte di ciò che è naturale. (La parola uccide la cosa).

Sia sullo sfondo freudiano dell’impossibile ricongiungimento con lo stesso, sia sullo sfondo Lacaniano della perdita radicale, in entrambi i casi l’origine si segna a partire da una lacerazione.

È il concetto di castrazione originaria, concetto con il quale la psicanalisi rigetta il luogo dell’origine nello spazio del mito e inaugura la continuità tra l’infanzia e l’età adulta.

Da dove veniamo? E Chi siamo? Sono le domande dalle quali siamo attraversati, domande che sottolineano l’impossibilità di rioltrepassare quella soglia dalla quale ci siamo generati e dalla quale si è generata la nostra consapevolezza, soglia che si costituirà come il limite.

La rappresentazione e la parola nascono così sullo sfondo di una perdita, e la pulsione, che è dell’ordine di una tensione verso il piacere, darà vita ad un movimento che continuerà a reiterarsi nel tentativo di raggiungere qualcosa che è per statuto irraggiungibile.

Che cos’è allora, in quest’ottica, quello che abbiamo chiamato il limite e che potremmo anche chiamare la legge, ovvero ciò entro cui ci generiamo e ci formiamo?

La legge o il limite è il luogo di uno strappo, luogo della creazione e della distruzione.

Noi non siamo altro che lo strappo stesso, tutte le nostre identificazioni non sono che elementi immaginari che ci ortopedizzano ricoprendo e raddoppiando il nulla dal quale veniamo.

Che cos’è l’etica in quest’ottica? Forse essere responsabili rispetto a questa nostra modalità esistenziale, sapere che c’è per tutti noi un polo di attrazione verso la distruzione e verso il male dal quale nessuno è esente. Ma questa consapevolezza, che è certamente un momento fondamentale della tensione etica, non mi sembra sufficiente.

La consapevolezza e la certezza del niente su cui ci fondiamo deve entrare in una prospettiva perché l’elaborazione del lutto di noi stessi si costituisca come apertura alla vita.

La dimensione individuale non è sufficiente, occorre entrare in una prospettiva fondandola e questo accade solo quando la vita dell’altro o degli altri che amiamo e di cui ci prendiamo cura, ad esempio la vita della generazione futura, conti per noi, più della nostra stessa vita.

Non credo di fare affermazioni eroiche o strabilianti, tutti i genitori, nel loro difficile divenire genitori, passano più o meno vicino a questo punto.

Nella miseria umana, una prospettiva si apre solo quando l’incontro con gli altri concreti che amiamo si differenzia da quell’altro incontro, che pure dobbiamo avere fatto, con l’altro che siamo per noi stessi.

Schematizzando eccessivamente e correndo il rischio di appiattire questioni che si presentano certamente con maggiore complessità, si potrebbe forse dire che l’analisi opera in questa seconda dimensione; dopo l’analisi si ricostruisce la dimensione della prospettiva e si assume il proprio posto nella generazione, e di generazione, superando per quanto ci è possibile, un’idea individualistica della vita.

Senza questa assunzione l’etica resta il luogo di un impossibile.

Solo se ci disponiamo ad aprire la dimensione del futuro alle nuove generazioni, la nostra propria finitudine e la nostra propria morte potranno partecipare della trama di senso della vita.

Così che non solo veniamo dal vuoto, dal niente e dalla lacerazione, ma anche dall’amore di chi ci ha generati. Se siamo qui a parlarne ed a cercare in questa direzione è perché per qualche verso, in qualche fondamentale momento della nostra vita, anche noi siamo stati amati di un amore così concepito.

Se siamo in quest’ottica e non ci lasciamo fuorviare dalla nostra modalità individualistica di guardare alla vita, se entriamo in una prospettiva, in una profondità di campo che tenga conto degli altri, allora saremo anche in grado di togliere i veli che ci impediscono di vedere che esiste un’infanzia, esiste un luogo dell’origine e che non si tratta affatto di un mito.

È l’adulto e non il bambino che si genera da una lacerazione. Se c’è una castrazione originaria è solo quella che segna la fine dell’infanzia, originaria cioè, di ciò che siamo ora come adulti, e solo immaginariamente, ma anche ingenerosamente, proiettata nel luogo miticamente concepito della nascita.

Prima che la dimensione del linguaggio venga in evidenza costituendo retroattivamente quel taglio che segnerà l’uscita dall’infanzia, la vita, il movimento ed il piacere ad essi collegato non nasceranno da una lacerazione ma da un’apertura, cioè, da un’attivazione della contemporaneità dei piani di espressione e sarà questa, se mai, che permetterà il lento articolarsi e strutturarsi del limite.

Il bambino è nella sua essenza, quel movimento che, nel prodursi, contemporaneamente struttura il limite e allarga l’orizzonte.

L’etica nell’infanzia è il luogo dell’interfaccia la cui esistenza è resa possibile da un adulto in grado di vedere la modalità esistenziale propria del bambino, modalità in cui l’essere è a cielo aperto, e il bambino coincide con il luogo di scaturigine del sapere. Si tratta di una modalità esistenziale di estrema forza, vi è racchiuso il segreto delle potenzialità dell’infanzia che ci fonderanno intellettivamente ed emotivamente. Ma si tratta anche di una modalità esistenziale di estrema fragilità.

Questa dimensione dell’essere a cielo aperto attira la nostra aggressività di adulti in quanto luogo dell’origine da infrangere e martoriare.

Quando aggrediamo i bambini è perché commettiamo il peccato di voler vedere, infrangendolo e violandolo, il luogo dal quale veniamo.

Solo allora i bambini mettono in atto anch’essi comportamenti coatti e compulsivi di aggressività.

Essa è infatti una domanda profonda del bambino di esistere e i bambini possono esistere quando non viene violata la loro propria dimensione esistenziale, quella della contemporaneità dei piani di espressione o globalità esistenziale.

Questa dimensione ci introduce finalmente a considerare il tipo specifico di piacere ad essa connesso, ovvero il piacere del movimento o piacere senso-motorio che è piacere dell’in sé della vita e che niente ha a che vedere con il funzionamento della pulsione.

Il piacere del movimento si attiva nell’apertura e non ha di mira un oggetto. Ciò che attiva il piacere del movimento è infatti la contemporaneità dell’equilibrio e del disequilibrio, è l’in sé dello scarto, che con la psicomotricità possiamo chiamare rottura tonica.

Ma come si costituisce il piacere del movimento?

Dice B. Aucouturier, al quale si deve l’umiltà di una pratica che ha saputo individuare con chiarezza un punto così importante,

“Il piacere del movimento non è un dato originario.

All’inizio, infatti, troviamo nel bambino solo riattualizzazoni di movimenti piacevoli. Il movimento piacevole diventa piacere solo attraverso l’intermediario dell’Altro che si fa specchio del piacere del bambino”.

Si apre in questo modo la strada ai primi processi di mentalizzazione.

Occorre, cioè, che il bambino riconosca il suo piacere negli occhi dell’Altro, nella sua voce e nei suoi gesti.

In quest’azione di riconoscimento, si stacca e nello stesso tempo si deposita qualcosa che per lui è fondamentale, ovvero il suo stesso piacere che è già mentalizzazione ed è già la prima forma di pensiero.

Come si può vedere, siamo dinanzi a qualcosa che ha del miracoloso in quanto, in questa nascita alla consapevolezza il distacco che l’atto del riconoscimento include non è dolore ma piacere; la perdita, che il distacco comporta non è sottrazione ma coincide con il ritrovamento; la mentalizzazione, ovvero la rappresentazione che si eleva a partire dal distacco e dalla perdita, non proviene dall’alienazione né dalla divisione ma da una radice propria, cioè, dall’apertura che è propria di quel sapere d’essere che definisce il vivente. (E.Perrella)

Nella contemporaneità di perdita e di ritrovamento credo stia per tutti noi il senso dell’etica e anche il senso della vita, ma, come spero di essere riuscita a mostrare, come adulti e come bambini ne partecipiamo in modo diverso.

La contemporaneità di perdita e di ritrovamento coincide con il movimento dell’essere nel suo prodursi come presenza che non è indipendente dalla nostra modalità di assistervi, in quanto, essa partecipandovi dispone o distrugge, (ed è questa la nostra responsabilità di adulti), quell’apertura che è già cura della vita nel suo valore inestinguibile.